Diario di bordo
Il Club Alpino Italiano, fondato nel 1863, è giunto quest’anno al suo 150° compleanno.
Per celebrare l’evento, le sezioni CAI Verbano Intra, Pallanza e Borgomanero hanno organizzato un trekking da rifugio a rifugio, in una zona di frontiera tra i Laghi Maggiore, di Mergozzo e la Valgrande.
Davvero una bella pensata.
“Bella” perché concordata da soggetti diversi, con una sinergia di idee, di risorse e di forze, a beneficio degli escursionisti, i quali hanno apprezzato l’incontro con altri partecipanti in un clima di reciproca cordialità.
“Bella” perché articolata su tre giorni di cammino, con tappe nei Rifugi, dove l’approccio alla montagna di solitari alpinisti pionieri si è sviluppato e trasformato in attività di gruppo.
“Bella” per il valore intrinseco dell’esperienza, ben organizzata, saggiamente condotta e felicemente conclusa.
14 giugno
Dopo la “caliente” partenza da Fondotoce, ci tuffiamo nella frescura ombrosa del Sentiero Azzurro al Mont’Orfano, noto per il suo fascino paesaggistico ma non abbastanza per il suo valore botanico, caratterizzato da una flora tipica e interessante.
L’attraversamento a piedi di Mergozzo e di Bracchio ci permette di cogliere le vestigia di un tempo in cui i signori qui venivano in villeggiatura e i romantici viaggiatori d’Oltralpe qui soggiornavano estasiati. Ripreso il cammino sulla mulattiera, siamo baciati, anzi bersagliati dal sole del mezzodì, al punto da liquefare in stillicidi o rivoli di sudore e da arrivare boccheggianti alle vallette percorse dai ruscelli, ansiosi di trarre ristoro dalla semplice percezione dell’acqua che scorre.
Finalmente i prati, gli alberi e i fiori di Vercio. Nell’attesa che la compagnia, sgranatasi cammin facendo si ricomponga e si possa metter mano tutti insieme alle provviste dello zaino, nascono sottili disquisizioni culinarie sui valori nutrizionali e sui pregi organolettici del miglio, variamente cucinato, nonostante le perplessità di qualche denigratore. La pausa di relax sotto il porticato della chiesetta rigenera le forze e rende agevole, anche grazie a un compiacente venticello, la successiva salita alla Colma di Vercio e al Faiè, purtroppo avvolto nella foschia. Qualche goccia di pioggia saluta il nostro arrivo al Rifugio Fantoli di Ompio e accompagna la degustazione della cena, abbondante, degna di una festa di compleanno, unanimemente apprezzata, perché alla fine anche chi aveva predicato miglio ha razzolato salsicce! La prospettiva della lunga galoppata in programma per il giorno seguente non impensierisce e non ostacola una buona dormita.
15 giugno
In perfetto orario sulla tabella di marcia il gruppo, rimpolpato da nuovi e consistenti arrivi, è pronto per partire.
Si risale alla Colma di Vercio, si sfiora Buè, dove sono di casa gli amici del Gruppo Valgrande, si scende a Ponte Velina, in un ambiente selvaggio dominato dal torrente e dalle sue acque, ruggenti tra le forre, schiumanti tra i macigni, rabbiose contro le rive. Il soprastante alpeggio merita una sosta, per le esigenze del corpo ma anche dello spirito, infatti sono queste, le Veline della Valgrande e non le altre, omonime e fasulle, a farci battere il cuore!
Ormai proiettati verso Cicogna, incontriamo Baserga, Uccigiola, Montuzzo, Merina. Pur tra i muri diroccati e i rovi infestanti, ogni angolo ha in serbo il suo segreto: un muro di contenimento dei “runchett” su cui si coltivavano le viti, una volta a botte, un’incisione sul portale, una finestra sormontata da tettuccio, i resti di attività lavorative, come piazzole di scambio tra teleferiche, graticci per le castagne, torchi dalla caratteristica forma circolare …
La sosta a Cicogna è breve; meglio non indugiare e fugare sul nascere le cattive tentazioni, indotte dalla previsione di azzeramento delle quote faticosamente guadagnate con la discesa al ponte della Buia sul rio Pogallo e la risalita a Premiago, Varola, Varolino, Curgei.
L’erto sentiero che si inerpica nel bosco attiva la fantasia ed evoca suggestioni magiche. Così il piede di un albero divelto può diventare un elfo, un ceppo di radici contorte la chioma scarmigliata di una strega, un tronco scavato la sagoma di un gigante di pietra del Neolitico.
Non appena si sbuca alla sella di Piancavallone colorata, ridente, aperta, con il saluto agli amici che non possono proseguire il viaggio, si ritorna alla concreta realtà.
Al Rifugio riemergono le varie componenti dell’evento. C’è il momento celebrativo, del brindisi di auguri all’ultracentenaria Istituzione del CAI e di lunga vita a Franco Rossi presidente neo eletto della Sezione Verbano; c’è il momento conviviale della cenetta raffinata, caratterizzata da un insolito silenzio, rotto dal tintinnare delle stoviglie e da sordi mugolii di approvazione.
16 giugno
Il terzo, ultimo giorno, la sveglia è data dall’arrivo di un gruppo di capre. In men che non si dica tutti sono in piedi, pronti e desiderosi di coronare degnamente l’esperienza sulla Zeda, una montagna storica per una ricorrenza storica.
Subito dopo la partenza però qualcuno, avvezzo alle impennate dei giorni precedenti, accusa sofferenza per la mancanza di una decisa salita. Bastano poche parole sussurrate all’orecchio degli accompagnatori, Franco, Emilio e Bobo, e l’affare è fatto. La comitiva si divide: un gruppo imbocca la via normale che porta alla Marona, l’altro sale alla Cugnacorta, quindi per cresta, raggiunge i compagni al Ponte del Diavolo.
La visita all’interno della Cappella riserva una sorpresa. Ancora una volta si riconferma il fatto che in montagna non vale il “deja vu”, dato che ogni escursione, sia pure ripetuta infinite volte, sempre ha in serbo qualcosa di nuovo, qualcosa per cui è valsa la pena di tornare.
I nostri occhi si posano sulla lapide con i nomi dei giovani trucidati durante il Rastrellamento tedesco del 1944; la data dell’eccidio, 16 giugno, coincide con quella odierna. In modo del tutto casuale ci troviamo in un Sacrario per ricordare con commozione e gratitudine chi su queste aspre montagna ha lottato, arrivando a sacrificare la vita, perché noi fossimo liberati e liberi.
Tra i vapori della calura, la Zeda ci appare ora nitida e luminosa ora evanescente e sfumata. Intorno alla Croce di vetta siamo convinti di aver concluso il cammino; invece, ahimè, ci aspetta il lungo tratto di strada in direzione di Piancavallo, alla fermata dell’autobus.
Arranchiamo stancamente sulla sterrata, ragionando intorno alle relazioni di spazio - tempo - velocità - temperatura del suolo, alla ricerca di qualche sortilegio per arrivare il più in fretta possibile alla meta, quando in lontananza si staglia il volto noto di un amico, un buon samaritano che ci è venuto incontro per offrire compagnia, ma soprattutto bevande fresche.
A questo punto il trekking è finito, tra i saluti commossi e la unanime soddisfazione.
Non mi sembra vero di essere nel mio letto. Ricordi, sensazioni, percezioni scorrono nella mente come fotogrammi pescati a caso da una bisaccia: il candore regale del giglio di montagna che sovrasta le felci nella radura, l’occhieggiare vellutato delle genziane, la festa in rosa dei rododendri ondeggianti sulla pietraia, poi le scaglie di mica brillanti come oro, il sapore antico delle fragoline di bosco, il singulto lamentoso del cuculo, l’odore dell’erba in crescita, la fragranza dell’acqua di sorgente sorbita dal palmo della mano, quindi dirupi e dossi, cenge e sentieri scalinati valloni e valloncelli …
Infine i faggi, solitari e simili a venerabili vegliardi, o raccolti a ceppaia in un fraterno abbraccio, o allineati come gendarmi appostati per garantire riparo e protezione, o distribuiti a manto per trasmettere alla montagna una verde carezza di vita, futuro, speranza.
Maria