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PRIMO GIORNO: PRELUDIO
Il viaggio, benché agevolato da traffico scorrevole e dall’assenza di inconvenienti o di imprevisti, è stato lungo. Solamente nel pomeriggio si potuto dare attuazione all’escursione programmata, che, sia pure con il vincolo dei tempi ristretti, è stata ricca di stimoli e di suggestioni.
Già dall’autostrada la mole del Gran Sasso aveva salutato il nostro ingresso in Terra d’Abruzzo.
Dai finestrini del pullman avevamo visto scorrere un paesaggio di grande dolcezza: sullo sfondo un susseguirsi di conche e di avvallamenti, un rincorrersi di ondulazioni e di colli, in primo piano i filari di vite, gli ulivi, i canneti sul ciglio di fossati paludosi, i casolari tra i campi arati di fresco pronti per le semine autunnali.
Infine era apparsa la destinazione: Caramanico, un paese dalla marcata connotazione turistica, con centro termale, villini, alberghi, negozi sorti su un tessuto urbano tardo medioevale.
Questo primo approccio con il territorio fisico è diventato ancor più coinvolgente nel momento in cui siamo stati accolti dal sorriso caloroso degli amici di Frascati, nostri accompagnatori fedeli, fidati e generosi per l’intera durata del trekking. Felici di poter mettere i piedi a terra e bramosi di conoscere il luogo, senza indugio … via!

CAI Verbano - Gruppo della Majella con il CAI Frascati CAI Verbano - Gruppo della Majella con il CAI Frascati

Oggetto dell’esplorazione è il Vallone dell’Orfento, riserva naturale di particolare interesse geografico, in quanto connubio tra area boschiva appenninica, macchia mediterranea, fascia vegetativa delle zone umide, nicchia di biodiversità, includente latifoglie con ontani, roverelle, salici, faggi sui fianchi di rilievi, ciclamini, ellebori e colchici nel sottobosco, conifere nane sulle sporgenze delle rocce, felci, muschi, licheni a ridosso delle cascatelle, tra i ciottoli del greto, a filo dell’acqua.
Il Sentiero delle Scalelle, nel suo susseguirsi di gradoni e radure sospese, sperono rocciosi e rudi costoloni, forre strapiombanti e calme rade sabbiose, ponti e passerelle, antri e grotte, oltre al diretto e rigenerante contatto con un ambiente naturale diverso rispetto a quello alpino, ci immerge nell’atmosfera di mistero dei luoghi segreti, dilata i confini ristretti dello spazio fisico per farci approdare con l’immaginazione a rive lontane, ci introduce per un attimo nel mondo fantasioso delle favole e conturbante dei romanzi d’avventura.
La stanchezza, complice la levataccia mattutina incomincia a farsi sentire. Raggiunto l’albergo, facciamo onore al ricco buffet preparato per la cena e, prima che si dia fiato alla tromba per suonare Il silenzio D’ordinanza, siamo tutti … in branda!

SECONDO GIORNO: ANDANTE SOSTENUTO
Le allettanti anticipazioni del Presidente Franco riguardo al contesto paesaggistico in cui ci saremmo mossi sono state puntualmente confermate dall’itinerario I Sentieri dello Spirito, in un affastellarsi di immagini, sensazioni, emozioni, sentimenti, pensieri.
Fin dalla partenza, direttamente dall’albergo, si impone come fulcro di interesse in senso conoscitivo e riflessivo il tema della complessità, della pluralità, della variabilità di modi in cui l’uomo si adatta e interagisce con territorio, attraverso una relazione, in taluni casi così stretta da diventare simbiosi.
Zigzagando in diagonale sul viottolo che ci conduce a Decontra, su gradini consumati dall’uso, su lastroni levigati dal passaggio, entro muretti costruiti a mo’ di barriera allo scopo di rendere più sicuro il transito di persone e di animali, non sfugge la singolarità della struttura urbanistica di Caramanico, che dall’alto si configura come moderna acropoli poggiata su un promontorio alla confluenza di due fiumi, recante le vestigia di un passato nobile e florido nelle chiese, nel Convento delle Clarisse, negli edifici civili, bianchi su una tavolozza di colori verdi, dorati, ramati.
Tornante dopo tornante, lo scenario cambia: si incomincia a respirare aria campestre. Casolari, recinti per il bestiame, muri a secco, prati riarsi dalla siccità, noci e meli, siepi ravvivate dai frutti del biancospino, del rovo, del prugnolo, della rosa canina creano un bozzetto di bucolica poesia.

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Oltrepassato il paesello ci attende un ambiente ancor più rurale ed arcaico, la Val Giumentina. Alle nostre narici giungono gli aromi del ginepro, della mentuccia, del sambuco, gli odori dello stallatico e del fieno. Tra i magri pascoli riarsi dal sole, le ginestre e le sterpaglie rinsecchite, i rari arboscelli inariditi, si colgono i segni di una presenza umana atavica, rintracciabili nello spietramento del suolo e in una miriade di capanne di pietra, primitivi ricoveri utilizzati in promiscuità abitativa da persone e da animali. I tolos documentano quanto sia stata dura la dura lotta per la sopravvivenza e per l’approvvigionamento delle risorse indispensabili nel mondo pastorale.
Tale condizione di vita, comune a chi occupava l’ultimo posto nella piramide sociale, è diventata, con taluni adattamenti e correttivi, scelta libera, vocazione, per altri: altri per provenienza, livello culturale, progetto di vita. Gli eremiti in fuga dalle lusinghe mondane hanno trovato nell’inospitalità di questi luoghi la risposta a un profondo bisogno di spiritualità nel silenzio, nella solitudine, nella preghiera, nella penitenza.
Ma l’Abruzzo, oltre che di santi, è terra di briganti. Anche costoro hanno usufruito di angoli reconditi tra le montagne per rendersi irreperibili e restare impuniti dopo aver commesso reati per ribellarsi a istituzioni governative ingiuste e vessatorie. Del loro passaggio restano le famose “tavole”
La visita degli Eremi di San Bartolomeo e di Santo Spirito è stata toccante, perché agli antipodi rispetto al modello di monastero elaborato dai nostri schemi mentali. Addossati, anzi incorporati nella montagna, gli eremi sono un labirinto di cunicoli, celle, camminamenti, stanze, scale, loggiati, chiesette, con aggiunta eventuale di reliquiari, ossari, cappelle funerarie, cortiletti interni, giardini pensili, orticelli, angoli isolati per la meditazione…

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La pausa pranzo interrompe la nostra ricognizione del territorio in senso storico – antropologico; l’escursione riacquista i caratteri del camminare in montagna.
In dolce salita, immersi nella frescura ombrosa della faggeta, su un soffice tappeto di foglie, accompagnati dal rumoreggiare del torrente in fondo al vallone, puntiamo alla Majelletta, traguardo della tappa odierna. Ad un tratto un particolare rumore, uno strano zittisce la comitiva; nel profondo silenzio, ben chiaro, si ripete l’inusuale evento sonoro. Potrebbe trattarsi del bramito di uno, o forse di alcuni cervi, ma la tonalità più grave seguita da un’eco rintronante fa nascere un’ipotesi eccitante. Se fosse un orso? Così vicino? La marcia ora si fa più cauta, tutti procedono guardinghi serrando le fila, serpeggia una certa inquietudine. Fortunatamente siamo in dirittura d’arrivo. Sbucati sul prato rivediamo il cielo, il colle con gli impianti sciistici a pochi passi da noi, sentiamo tintinnare i campanacci delle mucche, si ripristina la consueta atmosfera di quieto tan tran.
Ci guardiamo attorno. Alle nostre spalle si estende l’area attraversata, vasta e variegata, fino a Caramanico, macchiolina chiara sperduta nella nebulosa miriade di paesi lontani lontani.
Orgogliosi, soddisfatti, grati a Basilio, facciamo il nostro ingresso trionfale all’albergo Mamma Rosa, rosa come il colore di questa emozionante giornata.

TERZO GIORNO: TOCCATA E FUGA
Raffiche insistenti di vento ci danno la sveglia. L’aria tersa ci offre in totale nitidezza la visione delle colline, del fondovalle, della pianura, delle città di Teramo e Chieti, e … del mare.
La distesa cerulea è sovrastata da un disco infuocato che gradatamente manda i suoi raggi, ormai splendenti sulla corona di cime dell’Appennino Centrale e sui pascoli d’alta quota, ai valloni ancora in ombra, alle gole dentro i canyon.
Dopo il rifugio Pomilio incomincia il cammino sulla via commemorativa dell’illustre abruzzese, Indro Montanelli e poi sul sentiero. Prati ingialliti ricoprono le modeste alture da valicare con un saliscendi panoramico al cospetto del Gran Sasso, del Vettore, del Velino, dei Monti della Laga. Lo spettacolo è impagabile, ma non riusciamo a toglierci d’appresso un accompagnatore indesiderato, Eolo. L’erba cede il posto ai mughi, disposti artisticamente qua in ordine sparso là a cespugli, a macchia, a cornice, a cordolo, eppure inadeguati a frenare l’irruenza di un vento davvero fastidioso.
Un ristretto pianoro con fontanella dà inizio alla salita verso la meta della giornata, il monte Focalone, una delle cime che concorrono, insieme al monte Amaro, all’Acquaviva, alle Murelle a formare il massiccio orografico della Majella.
L’ascesa si fa più ripida su sentiero sassoso e poi roccioso. Il mondo attorno ha il pallore lunare della roccia calcarea con sfumature grigiastre, brune, rosate. Sotto di noi si apre un vallone, dal ripido versante scosceso verso un profondo precipizio, solcato da un torrente.
Si sa che in montagna ogni conquista richiede fatica, dunque, quando mettiamo piede sulla dorsale dell’anticima, dove è posto il bivacco Fusco, riteniamo di aver dato il dovuto. Non è così.

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Il vento a questa altitudine diventa insopportabile. I capi gita decidono che sia meglio proseguire. Il meteo sembra impazzito in un imprevedibile e repentino alternarsi si squarci di purissimo azzurro e cappe di grigiore plumbeo, pieno sole e prodromi di pioggia, arcobaleni in serie e gelidi goccioloni. Il vento inarrestabile, insistente, ingestibile schiaffeggia i volti, piega le ginocchia, strappa i vestiti, percuote i dorsi incurvati dagli zaini, scaglia a terra o fa … lievitare! Dov’è finita la fila di escursionisti che poco prima avanzava ordinatamente punteggiando di vivaci colori il candore diafano del calcare? La realtà diventa una sequenza filmica in cui ogni attore è regista di sé stesso. Miserabili allo sbando in un deserto pietroso della Mongolia, truppe d’assalto impegnate in un’azione di guerra condotta con balzi repentini e scomposti sotto l’infuriare del fuoco nemico, pellegrini in preda a fanatismo mistico che, prostrati e striscianti, anelano al raggiungimento di un talismano, alias colonnina di sassi accatastati o punto trigonometrico di vetta e, senza la possibilità di sostare in una momentanea estasi, ovvero dar corso a congratulazioni reciproche, abbracci, foto di gruppo, devono ubbidire a un perentorio ordine: - Via, via! Scendere subito!
Neppure sotto la cima, al Bivacco, si trova il sollievo auspicato, poiché si deve fronteggiare, in aggiunta al vento, una sempre più concreta minaccia di temporale. Meglio quindi mettersi al sicuro ancora più in basso e fermarsi in prossimità della nota fontanella, per rallegrarsi, ricostituire il gruppo, mettere mano alle cibarie e riposarsi.
Sul Focalone è tornato a splendere il sole. Vengono alla mente gli scorci paesaggistici presentati in anteprima da Maria: il Passo di Acquaviva, la radura dei camosci, la parete delle Murelle. L’occasione è sfumata, ma non c’è tempo però i rimpianti e il rammarico, dato che ricomincia a piovere.
Non resta che riprendere la discesa verso il Rifugio Pomilio, ora col sole cocente, ora nella nebbia, ora con il rombo dei tuoni e coprire di corsa l’ultimo tratto di strada per prendere posto sul pullman, finalmente al riparo dalle intemperie.

QUARTO GIORNO: MODERATO ALLEGRETTO
Il trekking volge ormai al termine e di fatto è scattato il conto alla rovescia, ma il gruppo non ha perso l’entusiasmo. Di buona lena, dal Passo San Leonardo, si appresta a godere l’ultima escursione. Il programma “Panorami dal Monte Morrone” ne sottolinea la finalità estetica. Si dovrebbe salire a mezzacosta fino a raggiungere il Rifugio Capotosto, con vista spettacolare sulla Majella, eventualmente abbassarsi sul versante della Val Peligna per ammirare la piana di Sulmona. Con tragitto ad anello si scenderebbe poi a Rocca Caramanico e, con un momento di festoso convivio, si chiuderebbe ufficialmente il trekking.
Il cammino inizia sotto buoni auspici, infatti si entra nell’ormai familiare faggeta, caratterizzata da alberi dal portamento longilineo ed eretto, distribuiti sul terreno quanto basta per creare attorno al sentiero una verde galleria fronzuta e per far filtrare dalla ramaglia una luminosità soffusa. Il pallido sole che ci aveva riscaldato e rincuorato al momento della partenza improvvisamente si eclissa; il cielo si rannuvola, una densa nebbia avvolge la sommità del monte Mileto, il monte Morrone è sepolto sotto una coltre di livido blu.

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Piove. Non ci troviamo nel famoso pineto dannunziano e non è presente l’affascinante Ermione, ma della voluttà e del godimento sensoriale che l’abbandonarsi alla mercé della pioggia battente dovrebbe procurare non c’è traccia. Il gruppo è irritato dal disagio provocato dall’acquazzone e cerca con ogni mezzo di ripararsi. Il perdurare del maltempo ci costringe a chiudere l’anello e a raggiungere in fretta il paese.
Quando usciamo dal bosco, ritorna il sereno. Il silenzio dà voce alle meraviglie della natura e alla spoglia bellezza del borgo che ci apprestiamo a visitare: Rocca Caramanico. Attorno alla Fortezza in posizione dominante, un pugno di case in rovinoso degrado, una Chiesa madre di buona fattura con portale a tutto sesto e campanile a torre con pinnacolo, stradine a gradoni tra case d’un altro tempo. Piccolo borgo, meraviglia d’Italia nel cuore del Parco della Majella, permeato dal fascino delle cose rare e preziose, evocativo di un mondo scomparso ma tuttora presente negli amorini affrescati ai lati di una fontanella, nelle incisioni lignee sugli infissi, nello stemma nobiliare applicato all’architrave, nel corrimano in ferro battuto, nel capitello ornato da foglie di acanto, nelle piante esotiche del giardino invaso dai rovi.
Non si poteva scegliere luogo più significativo per celebrare il momento del commiato dagli amici del CAI di Frascati.
Nella calda atmosfera di un’osteria, rinata per dare al paese fantasma un nuovo futuro, attorno a una tavola imbandita in modo frugale, ma dispensatrice di sapori e di profumi autentici e genuini, il nostro addio è diventato un commosso arrivederci.

Maria B.

Le foto dell'escursione