Ci sono escursioni che, pur se già effettuate, lasciano in cuore l’aspirazione a ripeterle: o per il bisogno di riassaporare il contatto con un angolo di montagna particolare o per la tensione a indagare in modo più profondo un ambiente stimolante.
La proposta di collaborazione tra CAI Verbano e Pro Valle, quest’anno, va in questa direzione. L’itinerario programmato infatti interessa la Cannobina, un’area “fuori mano” non oggetto di usuale frequentazione e si colloca alle propaggini della Val Grande, caratterizzata per sua natura da angoli reconditi che solo la consulenza di esperti può portare alla luce. L’accompagnamento da parte di due guide locali, Silvano e Peppino, in aggiunta all’onnipresente Franco, è stato dunque utile e fecondo di una serie di arricchimenti culturali, emersi tramite una lettura geo-morfologica, storica, antropologica del luogo.
I ventiquattro partecipanti, intenzionati nonostante tutto a scommettere sul bel tempo, da Gurro, una manciata di case, proiettate verso la conquista del proprio posto al sole tra una rete di viottoli e di balconi sporgenti, di buon mattino si avviano. L’obiettivo del fotografo immortala la comitiva che si sgrana sul lastrico a gradoni, tra le viti aggrappate ai muri a secco, i coloratissimi giardinetti a lato delle porte, i rosai che contornano le sacre effigie, il profumo dei biancospini e dei maggiociondoli.
Subito emerge il carattere dell’escursione: un andare alla riscoperta della leggi di sopravvivenza in ambiente ostile e povero di risorse, una pausa di riflessione su spaccati di vita seminomade, dipendenti da un atavico calendario delle transumanze, dai bassi agli alti alpeggi, tramandato di generazione in generazione nel corso dei secoli.
Da Piazza, ridente borgo campestre, con i rustici riadattati alle esigenze della modernità, dopo aver dato un’occhiata all’abitato di Calogna posto sull’opposto versante, con leggera risalita, su strada sterrata che a mezza costa fiancheggia il torrente, raggiungiamo tra il verde, Praduru.
Quando la distesa erbosa viene invasa dalla boscaglia e la strada si trasforma in mulattiera, oltrepassato il torrente, la iniziale dolce pendenza diverta decisa rimonta nella fresca penombra di una spettacolare faggeta. Torniamo a veder la luce in prossimità di Vandra. Lo stato di degrado del luogo, con i ruderi abbandonati e il sentiero latitante tra la vegetazione, contrasta con lo scenario naturalistico, che fa da cornice ai manufatti in disfacimento realizzati dall’uomo. La superba sommità del Torrione, la catena dentellata dei Lidesh, l’aspro intaglio del Passo Crocette si dispiegano a ventaglio sopra la stretta cornice, che dal Bivacco, correndo tra sterpaglie, intagli, ruscelletti e piccoli residui nivali, ci porta con lieve saliscendi fino al dosso su cui è adagiato l’Alpone, angolo di dolce quiete, esempio di felice connubio tra uomo e natura, dove il riadattamento funzionale delle baite è esteticamente gradevole e armonizzato con l’ambiente della montagna.
L’accoglienza festosa degli alpigiani presenti sul posto non fa perdere di vista la meta ultima dell’escursione, che ammicca sopra di noi, brulicante di persone già in vetta. Di buona lena, il gruppo quasi al completo si appresta a salire l’ultimo tratto e a raggiungere la cima della Piota o Pincin.
Dal cippo sommitale l’occhio spazia a tutto campo sul Bernina e sui Giganti della vicina Svizzera che si ergono in lontananza ma indugia quasi con affetto sulle montagne di casa nostra, la cresta della Zeda, esile filo aereo che si dispiega dalla croce, nel riverbero grigio delle nuvole minacciosamente comparse, la val Pogallo ancora ammantata dal suo abito di tardo inverno, la fiera mole del Pedum. Ci sentiamo a un passo dal cielo. Mettere i piedi sul sentiero Bove è sempre un’emozione; il semplice contatto con questa via, tenacemente voluta dai pionieri del nascente alpinismo di fine Ottocento, ci inserisce in quella comunione di ideali che affratella gli amanti della montagna di tutti i tempi e di tutti i luoghi.
Si vorrebbe restare più a lungo per abbandonarsi in toto a questi piaceri dello spirito, ma … il corpo incomincia a reclamare la sua parte. Riprendiamo la discesa tra timidi fiori che alzano il capo nella coltre di erba riarsa dal gelo, tra piccole chiazze di verde che spiccano nel bruno delle rocce, tra rododendri che si preparano alla fioritura, desiderosi di raggiungere coloro che ci attendono all’Alpe Anche questa volta il pranzo diventa uno dei momenti clou della gita; la circolazione di bicchieri di vino, dolcetti, caffè da condividere tra tutti concretizzano quel clima di familiarità in cui ci si ritrova o ci si conosce, si rinsaldano amicizie vecchie o nuove, tra confidenze, facezie, risate e … gli immancabili canti!
Il ritorno al punto di partenza avviene per altra via, attraverso gli alpeggi di Vanzone e, dopo l’immancabile sosta alla cappella – rifugio della Fulca fino al paese. Il tragitto corre in gran parte all’aperto, tra piccole radure colonizzate dalle genzianelle e prati in fiore fino a Mergugna, sito di febbrile attività, dove si costruisce, si falcia, si riassetta, si pulisce…
Ripercorrendo la vecchia strada di collegamento tra i paesi, raggiungiamo Gurro. L’acqua che zampilla fresca dalla fontana della piazza lava via ogni stanchezza, ci ristora, ci ridona energia …
Ecco, saremmo quasi pronti per ripartire!